Ogni volta che leggo le dichiarazioni di qualche attivista (qualunque sia la causa in gioco) mi viene automatico pensare “sì, ma…”
Non riesco ad appassionarmi, salta fuori il mio spirito di contraddizione anche se so che in fondo la causa è giusta. È il metodo che, almeno con me, non funziona.
Se Greta Thunberg parla dell’emergenza climatica, le posso anche dare ragione ma dopo due minuti sto già pensando ad altro e magari sto facendo proprio qualcosa che a Greta farebbe arrabbiare.
Se Margaret Atwood dice in un’intervista che la nostra società è nata male perché i cardini della Rivoluzione francese erano libertà, uguaglianza e fratellanza, e quindi mancava la sorellanza, mi viene giusto da alzare un sopracciglio.
I libri che mi hanno reso una persona migliore
Eppure, ed ecco che arriviamo al tema del post, se leggo Il racconto dell’ancella, sempre di Margaret Atwood, le battaglie femministe acquisiscono per me un senso compiuto, comprensibile.
E questo perché una storia, una grande storia, ti obbliga a spostare il tuo punto di vista. In questo caso non sei più il maschio etero privilegiato che viene chiamato sul banco degli imputati, ma sei l’ancella Difred, l’ancella senza diritti che appartiene a Fred. Cambiare prospettiva, e in maniera immersiva, ci permette di rilucidare il nostro sguardo, di scrollarci di dosso i pregiudizi.
In breve, leggere storie ci rende più empatici.
È paradossale che la fiction (ovvero qualcosa di inventato) abbia così tanta presa su di noi da raccontarci la realtà in maniera più efficace di qualsiasi dato statistico. Ma è una cosa che a me è successa un sacco di volte. Ed è forse per questo che spesso si dice che leggere ci migliora come esseri umani.
Mi è successo ad esempio con Radici, il bellissimo romanzo di Alex Haley. Parlare di razzismo a volte sembra un puro esercizio retorico ma immergersi nella storia di Kunta Kinte e della sua progenie ci fa capire molto meglio che cosa significa essere neri e soprattutto che cosa significava essere neri durante lo schiavismo.
Mi è successo con Maus, la graphic novel di Art Spiegelman. Mettersi nei panni degli ebrei perseguitati dai nazisti, attraverso la storia della famiglia dell’autore, mi ha tolto il sonno per un po’ di notti. Ma allo stesso tempo, aver letto questa storia durante la pandemia mi ha fatto riconsiderare un po’ le priorità e fatto capire che, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, oggi in questa parte di mondo rimaniamo dei privilegiati (almeno finché non scoppierà la Terza guerra mondiale).
E più recentemente mi è successo con La lingua perduta delle gru, il romanzo di David Leavitt, che ho avuto la fortuna di conoscere qui a Torino. Qui si parla di omosessualità nella New York degli anni Ottanta, delle difficoltà che incontra un ragazzo gay quando si dichiara alla propria famiglia, anche se si tratta di una famiglia liberal e moderna. E ci fa capire meglio di qualunque comizio politico perché è importante aprire il proprio sguardo e non pensare che un problema che non ci riguarda direttamente non sia un problema per altre persone.
Le storie hanno perfino il potere di farci mettere nei panni dei “cattivi”.
E a voi è mai successo di diventare più empatici grazie alla lettura di una storia? Se sì, con quale storia?
PS: c’è però una controindicazione. Le storie sanno essere così convincenti che da esse possono nascere pure le sette. Avete presente il caso dei libri di L. Ron Hubbard e di Scientology?

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