Leggere gli autori italiani o gli autori stranieri tradotti?

da | Set 14, 2017 | Sulla scrittura | 0 commenti

La polemica letteraria dell’estate è nata da un articolo di Francesco Musolino pubblicato su Il Fatto Quotidiano, in cui si diceva che i giovani scrittori non solo non leggono i classici ma se ne vantano pure.

Ora, non voglio entrare nel merito della questione perché mi sembra sia stata creata ad hoc per indignare i lettori e soprattutto gli aspiranti scrittori non ancora baciati dal successo (“l’ho sempre detto che pubblicano solo i raccomandati, razza di capre ignoranti!”). E se proprio ci tenete a sapere che cosa ne penso, ve lo dirò in breve: i classici andrebbero letti, soprattutto se nella vita si vuole scrivere (avete mai visto un musicista che non ascolta musica?), ma allo stesso tempo a nessuno si può chiedere di aver letto tutti i classici. Mi ricorda quel giochino che fanno in molti – di solito quelli che hanno letto cinque libri in tutta la loro esistenza – quando ti fanno un elenco di titoli e nomi e ti chiedono che cosa ne pensi. Tu magari non li hai letti e fai la figura del fesso ignorante. Perché, come diceva Troisi, “voi siete in tanti a scrivere, ma io sono uno a leggere”.

Mi interessa maggiormente la seconda fase della polemica, che si può riassumere così: è inutile spendere tempo dietro i classici stranieri a meno di non leggerli in lingua originale, perché tradurre è tradire, e allora tanto meglio focalizzarsi sui capolavori della letteratura italiana.
E su questo, non sono d’accordo.

Senza scivolare nell’antica questione, spero ormai superata, che riguarda la forma e il contenuto di un’opera letteraria, non penso che tradurre un testo possa snaturarlo al punto da renderlo privo di valore. È vero che esistono traduzioni migliori e traduzioni peggiori (ad esempio, noto che molti che hanno abbandonato Proust sono incappati nella traduzione sbagliata), ma la voce di un grande autore riesce a superare ogni barriera linguistica. Ho letto testi di Fitzgerald e di King nella versione di diversi traduttori, eppure mai, in nessun momento, ho dubitato che fossero stati scritti da Fitzgerald e da King. Ed era qualcosa di diverso da qualsiasi testo che avrei potuto trovare in lingua italiana, qualcosa che quindi mi sarei perso.

Se ci fossimo chiusi nel nostro recinto, saremmo ancora fermi a I promessi sposi e al ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno. Ma per fortuna nello scorso secolo ci sono stati personaggi come Pavese, come Fenoglio e come la Pivano che hanno provato ad allargare gli orizzonti. Mi viene in mente in particolare Fenoglio, il suo linguaggio ibrido tra italiano e inglese di Il partigiano Johnny e le sue sperimentazioni in La paga del sabato, che oggi a noi sembra un romanzo normale ma che all’epoca nessuno voleva pubblicare perché fatto principalmente di dialoghi e quindi “poco letterario”.
Ecco, senza i testi americani (e senza il cinema) non avremmo questo e tanti altri capolavori.

Andrea Malabaila

Andrea Malabaila

Sono nato a Torino nel 1977. Ho pubblicato il primo romanzo a ventitré anni e da allora il vizio della scrittura non mi ha più abbandonato. Fino a qui i romanzi sono sette: “Quelli di Goldrake” (Di Salvo, 2000), “Bambole cattive a Green Park” (Marsilio, 2003), “L’amore ci farà a pezzi” (Azimut, 2009; Clown Bianco, 2021), “Revolver” (BookSalad, 2013), “La parte sbagliata del paradiso” (Fernandel, 2014) e “Green Park Serenade” (Pendragon, 2016), “La vita sessuale delle sirene” (Clown Bianco, 2018), “Lungomare nostalgia” (Spartaco, 2023).
Nel 2007 ho fondato Las Vegas edizioni, di cui sono Sindaco, direttore editoriale, oscuro burocrate e facchino.
Insegno Scrittura Creativa alla Scuola Internazionale di Comics di Torino.
Nella prossima vita voglio essere l’ala destra della Juventus Football Club, nella precedente avrei voluto essere uno dei Beatles.

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